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Al momento di passare dalla fase dell’idea alla sua realizzazione (a favore dello sviluppo dell’economia), la capacità di innovare delle nostre aziende sembra implodere. Un problema culturale certo, ma anche una sfida che non può essere ignorata ancora a lungo.

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di Roberto Monti, Sales Manager e Partner VisionMind

L’intervista a Giorgio Beltrami è stata pubblicata dal trimestrale AIDP Direzione del Personale nel numero 170 (a pag. 54). La Redazione di DdP ci ha gentilmente concesso la riproduzione.

L’articolo
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Ne parliamo con il prof. Giorgio Beltrami, già docente presso l’Università Cattolica, lo IULM di Milano e collaboratore dell’Università di Firenze e di Utrecht, ora professore a contratto presso l’Università Bicocca di Milano dove insegna nei corsi di Innovazione Organizzativa e Service Design. Si occupa inoltre di gestione dei processi di cambiamento organizzativo, di valorizzazione del capitale umano ed è consulente attivo presso numerose organizzazioni e aziende.

Professore, qual'è lo stato dell’arte oggi sul tema dell’innovazione all’interno delle aziende italiane?

Un recente report dell’Istat (2012) ci dice che solo il 31% delle aziende con più di 10 addetti ha attivato progetti di innovazione di prodotto o di processo per investimento totale di circa 30 miliardi di euro. Ovviamente tra le aziende che hanno innovato la parte del leone è stata fatta dell’industria e in particolare da quelle aziende con 250 o più addetti. Ma, a mio avviso, il dato più preoccupante è che solo il 12% di quel 31% di aziende che hanno avviato processi innovativi lo ha fatto in un’ottica di sistema coinvolgendo, ad esempio, i propri fornitori. Tutte le altre, la gran parte quindi, si è mossa in modo assolutamente autonomo.

L’innovazione è spesso un problema culturale, qual è l’approccio giusto?

prof. Giorgio Beltrami
Prof. Giorgio Beltrami

Pare proprio che il vero problema sia proprio di carattere culturale. Oggi quando si pensa all’innovazione è facile pensare alla tecnologia e alla miriade di applicazioni da essa consentite. Ma poniamoci una domanda: la loro disponibilità è condizione sufficiente per innescare processi innovativi? A mio avviso no. Senza una visione, un approccio strategico e quindi una cultura dell’innovazione la tecnologia è sterile. A mio avviso – e ad avviso di tanti altri che si occupano di innovazione – la tecnologia dovrebbe essere oramai concepita e vissuta come una commodity. Ciò che genera innovazione sono invece le nuove idee, la corretta lettura dei bisogni del mercato, le motivazioni a esplorare e sviluppare nuove idee: in sintesi un sano spirito imprenditoriale.

Vorrei qui ricordare quanto detto da Konosuke Matstushita negli anni ’50 rivolgendosi all’occidente: noi vinceremo e voi sarete sconfitti perché per voi l’attività manageriale consiste nel chiedere ai vostri dipendenti di spostare un oggetto da A a B; per noi invece l’attività manageriale consiste nel mobilitare, fino all’ultimo grammo, l’intelligenza di tutti i collaboratori per raggiungere obiettivi comuni. Questo è l’approccio giusto: motivare, coinvolgere, valorizzare per creare consenso.

Come può essere definita l’innovazione organizzativa?

La letteratura di settore, istituzionale o quella più divulgativa, offre molte definizioni di innovazione e ognuna di esse coglie uno o più aspetti propri del tema. Quindi più che soffermarmi su una singola definizione preferisco evidenziare due elementi costitutivi dell’innovazione: la generazione di valore e l’ottenimento di un risultato effettivo. In tal senso quindi non concepisco l’innovazione come un processo fine a se stesso, da laboratorio. Se non genera risultati, benefici, ricadute e valore aggiunto sull’impresa e su tutto il sistema di riferimento (clienti, dipendenti, fornitori etc.) risulta sterile. Non a caso il 7° Programma Quadro Europeo appena conclusosi e dedicato a dare impulso all’innovazione ha evidenziato nella difficoltà a trasferire l’innovazione sviluppata a livello di ricerca al livello applicativo e commerciale un fattore di criticità molto significativo.

Quali sono le sfide che si trova a fronteggiare?

Personalmente ritengo che la principale sfida sia proprio quella di vedere l’innovazione come un’opportunità reale. C’è poi - dato il contesto italiano costituito nella più parte da micro e piccole imprese - una sfida nella sfida: fare sistema tra le aziende e tra le aziende e le agenzie che a diverso titolo e livello operano per fornire strumenti e informazione di supporto. Anni fa, in un corso sui fondi europei per le piccole e medie imprese, ho riscontrato moltissimo interesse, allo stesso tempo l’obiezione ricorrente era: “Ma noi che siamo in tre, in quattro o anche cinque come possiamo seguire e monitorare tutto ciò? Ci piacerebbe ma non ne abbiamo le risorse”. Oserei dire che anche la sfida sistema è una declinazione a livello macro della stessa sfida culturale che ogni imprenditore deve affrontare a livello individuale.

Quali sono le leve, i fattori che agevolano il processo di innovazione?

A livello interno i fattori che agevolano i processi di innovazione sono la capacità di interpretare e anticipare le evoluzioni del mercato, il perseguire una discontinuità evolutiva che preveda di avere il cambiamento nel proprio DNA aziendale e infine la capacità di puntare senza indugio sullo sviluppo di conoscenza come valore aggiunto e vantaggio competitivo. A tal proposito più volte ho provato a chiedere in azienda di rappresentare la mappa dei propri processi o l’organigramma: operazioni svolte senza difficoltà nella maggior parte dei casi. La difficoltà sorge quando chiedo di rappresentare la mappa della conoscenza tipica dell’azienda.

A livello esterno le leve che agevolano e stimolano l’innovazione sono l’intera platea di stakeholder: clienti, fornitori, enti e centri di ricerca, competitor, ecc.

Ma direi che sopra a tutto non possono mancare politiche aziendali che sappiano stimolare, suscitare e valorizzare i contributi che vengono dal basso, dai propri collaboratori e dipendenti. È di pochi giorni fa un’esperienza di formazione in cui ho incontrato dipendenti di un’organizzazione che non esitavano a descrivere il loro rapporto con i dirigenti e responsabili in termini quasi di sudditanza. Come potranno mai contribuire positivamente alla crescita della loro organizzazione?

Il Service Design

Il Service Design è un approccio innovativo alla progettazione, riprogettazione o rigenerazione di servizi e prodotti. Presuppone che nella proposta e nello scambio di beni e servizi la logica dominante non debba essere quella economica ma quella dell’interazione tra tutti gli attori coinvolti al fine di generare interazioni stabili capaci di generare nuove idee e opportunità per tutti i soggetti coinvolti. Non a caso nell’ambito del Service Design la classica impostazione del marketing fondata sulle “4P” viene integrata dalle “P” di “partecipanti” e “processi di coinvolgimento”. Non a caso poi tutte le tecniche di generazione di idee e di sviluppo di prodotti e servizi (Stakeholders Map, Service Safaris, The five “whys”, Expectation Maps, Desktop Walkthrough, Lego Serious Play, Customer Journey Maps, e FourSight® per citarne alcune) prevedono il pieno coinvolgimento di fornitori e clienti accanto ai designer di professione.

Esistono indicatori utili per valutare il livello di “innovatività” di un’organizzazione, o anche di un Paese?

A livello Paese, nel 2013 la Comunità Europea ha messo a punto un documento che si chiama “Innovation Union Scorecard” che riporta ben 25 differenti indicatori per valutare il livello di innovatività dei paesi UE. L’Italia risulta tra i paesi classificati a “innovazione moderata”. Ma quello che maggiormente preoccupa è l’indicatore relativo alla capacità di valorizzare il capitale umano: l’Italia viene prima solo di Portogallo e Malta (penultime e ultime della classifica).

A livello poi di singole aziende esistono diversi strumenti per misurare il grado di innovazione, alcuni anche molto complessi. In generale i quattro elementi che si prendono in considerazione sono: l’offerta, i clienti, i processi e la capillarità. Rimane sempre valido il principio che un’innovazione è tale quando risulta fattibile, efficace e originale.

Come si comunica l’innovazione? Che rapporto esiste tra la qualità della comunicazione all’interno delle organizzazioni e l’efficacia dell’innovazione?

La comunicazione è oramai universalmente riconosciuta come una competenza strategica non solo del singolo ma anche delle aziende. Avere un prodotto o un servizio innovativo senza essere in grado di comunicarlo in modo efficace e corretto significa non riuscire a generare valore. Anche in questo caso gli strumenti, le tecniche di marketing o le tecnologie sono meri strumenti rispetto alla definizione di una strategia coerente. La qualità della comunicazione all’interno delle aziende risente del clima aziendale. Un clima aziendale “avariato” genera una comunicazione distorta e spesso distorcente. Ed è illusorio pensare che lo stesso effetto non venga percepito nel comunicare o gestire un’innovazione. Personale di contatto che vive all’interno dell’azienda un clima tossico non potrà che comunicare tossicità anche nel momento in cui si troverà a proporre l’innovazione più strabiliante del momento.

Lei divide la sua vita tra mondo accademico e mondo delle imprese, dove opera come consulente: quanta distanza riscontra tra le due realtà in Italia? E come si può colmare?

Posso dirle cosa cerco di fare io: all’interno di ogni mio corso invito sempre dei testimoni che sono titolari o dirigenti di azienda. Perché? Perché i miei studenti abbiano la possibilità di colmare il divario che può esserci tra mondo accademico e mondo imprenditoriale. Esistono poi percorsi innovativi come ad esempio l’apprendistato universitario non sempre noti alle imprese ma estremamente interessanti nella loro formula applicativa. Bisogna anche dire però che la distanza di cui parliamo ha anche carattere fisiologico e che non sempre vede l’Università giocare un ruolo di rincorsa. In molti casi la ricerca e il lavoro accademico permettono di elaborare metodologie e modelli organizzativi che successivamente aiuteranno le aziende a migliorare le loro performance.

Chi le chiedesse un suggerimento per superare il problema culturale del nostro titolo e approcciare l’innovazione come una sfida, per vincerla, lei suggerirebbe di…?

Investire nel capitale umano creando occasioni e meccanismi che consentano di suscitare nei propri collaboratori e dipendenti una profonda voglia di partecipazione al fine di generare soluzioni innovative. Consiglierei di ricordarsi ogni giorno che i propri collaboratori e dipendenti sono intelligenze da mobilitare fino all’ultimo grammo per il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Consiglierei di recuperare la “cultura del riso e del samurai” tipiche di molte aziende giapponesi così da creare un clima che consenta a tutti di realizzarsi attraverso l’azienda e non contro o nonostante l’azienda.